L'attuale Turchia, nata dalle ceneri dell'Impero ottomano e da allora dilaniata tra Occidente e Oriente, tra Asia ed Europa, tra modernità e tradizione, tra laicità e religione, è una nazione inquieta, alla ricerca di sé stessa. Prova ne è l'esito delle ultime elezioni amministrative: ad appena due anni dal passaggio da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale e con il conferimento a Erdogan di poteri senza precedenti, l'AKP, il partito del presidente, ha perso, a sorpresa, il controllo della capitale Ankara e quello di Instanbul, la più grande città del paese. Un voto storico, complici la crisi economica e la recessione del paese. Sono così riaffiorati anche i fantasmi del passato sopiti, in particolare quello della repubblica laica di Atatürk, il militare, l'occidentale, primo presidente della Repubblica turca proclamata il 29 ottobre 1923. Erdogan, l'orientale e il conservatore, ha sempre sognato di divenire il nuovo Atatürk, ma in versione islamista. Giunto ai vertici dello stato spazzando ogni opposizione interna con una deriva autoritaria senza precedenti, l'uomo forte del paese si ritrova ora a fare i conti con l'altra anima della Turchia, quella del despotismo illuminato del primo e indimenticato padre della patria. Come Atatürk, Erdogan ha governato il paese con un pugno di ferro, come Atatürk ha fatto della minoranza curda il suo nemico interno numero uno, come lui ha usato la repressione contro ogni voce dissidente -politica, religiosa, o etnica. Atatürk e Erdogan, due fratelli nemici?.